lunedì 26 ottobre 2015

Cenote, la condivisione di un sogno

Era il 2010, quella pazza e fulminea spedizione di due giorni all’Abisso del Cenote sulle Conturines. Eravamo riusciti a scendere quel baratro ed eravamo rimasti esterrefatti dalla bellezza di quella grotta nelle viscere del ghiaccio e delle rocce dolomitiche. Ma in tutta quella frenetica discesa eravamo riusciti a estrarne solo pochi ricordi sbiaditi, e un’unica fotografia, sgranata e mossa, ma che dava l’idea di quel mondo enorme che si nascondeva là sotto. E tanta voglia di tornarvi un giorno.

A distanza di cinque anni da allora finalmente ci siamo riusciti.

Che sarebbe stata dura è stato evidente già da subito, attraversando un passo Falzarego innevato e scorgendo la montagna avvinghiata da dense nuvole. Avremmo potuto rinunciare subito e tornare verso la pianura dopo esserci tristemente salutati. E invece non c’è stato verso di fermarci. Due giorni di attesa, una squadra bella e affiatata, tanta neve che cade e tutti gli occhi girati all’insù alla ricerca di un effimero raggio di sole.

Con due giorni di ritardo sulla tabella di marcia, sabato mattina finalmente ci svegliamo con una giornata stupenda. Sappiamo che è un azzardo: molti di noi potranno entrare in grotta solo per una notte, chiamati dal lavoro a tornare già domenica mattina. E lassù resteremo pochi con una tonnellata di materiale e tantissime cose da fare, senza neanche sapere se il tempo ci permetterà di scendere a valle.

Ma ora o chissà tra quanti anni! La grotta è aperta, mi sono affacciato sul suo buio profondo insieme a Daniela già quest’estate, e non sappiamo se e quando si riaprirà ancora. L’elicottero decolla senza badare alle nostre esitazioni, fiancheggiando le pareti del Piz Conturines e svelandoci con un balzo un paesaggio di neve che ha più dell’himalayano che del dolomitico. Oltre 70 cm di polvere bianca a metà ottobre, il primo manto dell’inverno. Saltiamo giù tra i turbini e ci abbracciamo felici in quell’immensità che sembra impossibile sia a così pochi chilometri da casa.

Siamo in ballo e adesso dobbiamo far filare tutto liscio, con queste condizioni non possiamo permetterci leggerezze. In meno di un’ora nella distesa innevata sorge un campo efficientissimo, tende per tutti, una tenda cucina, elettricità, un riparo per chi si deve cambiare per entrare in grotta e per chi sta arrivando da valle battendo la pista fino a quassù. Si solleva la nebbia ma la strada verso l’ingresso è già tracciata e con una prima squadra rimetto subito piede nella grotta e comincio la discesa. I pozzi sono più ampli di cinque anni fa, le condizioni perfette, è tutto freddo e immobile, pochissimi stillicidi, e un forte vento che soffia dalle profondità della montagna. Superiamo una serie di passaggi che ormai erano relegati nella memoria dei sogni: la chiocciola di ghiaccio iniziale, il tunnel del vento, il pozzo da 30, fino ad affacciarsi sul baratro con la sua inquietante lingua di ghiaccio sospesa. Per oggi è tutto, un’altra squadra entrerà questa notte per finire l’armo, tentare nuove esplorazioni e montare la pazza piattaforma da cui domani dovremo fare la scansione laser scanner del salone.

Fuori la notte è fredda, una nebbia di ghiaccio avvolge tutto, il tempo si sta guastando. Siamo ancora più preoccupati la mattina quando la maggior parte del gruppo, dopo aver completato la preparazione della grotta, ci saluta. Rimaniamo davvero pochi, e per fortuna Mauro rimane per assisterci al campo quando usciremo questa notte dopo la punta finale: dovremo scendere, fare il servizio fotografico, effettuare le scansioni e disarmare tutto. In sole 6 persone con un mostro di laser scanner, valigie, attrezzature fotografiche, trapano, cavalletti, moltissimo materiale attaccato all’imbragatura che ci tira giù verso l’abisso, come se un mostro avesse afferrato dal buio il nostro portasacchi.
Facciamo tutto quello che possiamo fino allo sfinimento. Robbie e Alessio scattano in continuazione, bulbi si infiammano nelle mani di Daniela e Samuela illuminando il grandioso salone e le immagini cominciano a emergere, mentre io e Tommaso col laser portiamo a compimento il difficile lavoro di scansione della base del baratro.
È tardi, dobbiamo ancora disarmare tutto, ma soprattutto dobbiamo fare la scansione dalla vertiginosa piattaforma triangolare montata nella notte da Tono e Alberto. Dopo tutto il loro lavoro e dedizione al progetto una rinuncia è fuori discussione.

È un lavoro vertiginoso, siamo in 3 su delle barre di alluminio che si allungano per quasi 3 metri sul nero del pozzo (sapremo poi dalla scansione di essere appesi a 110 metri da terra!). Uno strumento da oltre 50mila euro, e tanta paura di fare movimenti sbagliati, di terminare questa “idea del cazzo” (testuali parole del topografo in quei momenti di follia!) con un bello schianto e un’iniezione di paura. Non può succedere niente, tutto deve andare liscio.
Lo scanner gira e Robbie scatta le sue foto. Le gambe e le mani cominciano a congelarsi. Bisogna muoversi, ci scalderanno i quintali di materiali da portare fuori entro la notte!

È un lungo lavoro ma probabilmente ormai siamo simpatici a questa grotta, che ci lascia uscire tutti ammaccati e con centinaia di metri di corda avvinghiati in matasse e sacchi, ma nonostante la stanchezza nella tenda cucina rimane la voglia di scherzare e sentire le barzellette di Mauro fino alle 4 di mattina. Siamo tutti più rilassati, ora sappiamo che possiamo farcela, domani possiamo scendere a valle se il tempo ce lo permetterà. Ci deve almeno concedere questo bel finale.

E la mattina il tempo è fantastico, facciamo anche volare il drone altissimo per fotografare questa storia dal cielo. E poi il rumore del rotore dell’elicottero compare nella valle, un tuffo nel vuoto e siamo già teletrasportati dove eravamo partiti solo due giorni fa.
Mai come questa volta ho avuto la sensazione di essere andato lontanissimo, eppure irragionevolmente vicino.

Il Cenote e proprio un sogno alle porte di casa, scrivevo 5 anni fa. Ed è magico quando si riescono a condividere i sogni.

Un ringraziamento generale a chi ha partecipato e alle persone che si sono adoperate con grande fatica e dispendio di tempo alla buona riuscita di questa operazione: Daniela Barbieri, Matteo Barison, Alessandro Benazzato, Domenico Carletto, Samuela Dal Maso, Luca Dal Molin, Tono De Vivo, Filippo Felici, Mauro Lampo, Francesco Lo Mastro, Andrea Pirovano, Enzo Procopio, Alessio Romeo, Alberto Righetto, Tommaso Santagata, Francesco Sauro, Robbie Shone. Hanno contribuito alla riuscita della spedizione il Club Speleologico Proteo, il Gruppo Speleologico Padovano e il Gruppo Grotte Treviso. Un grazie a Carlo Piovesan per la realizzazione della piattaforma smontabile in alluminio per il laser scanner. 
Un sentito grazie all'Ufficio Parchi della Provincia Autonoma di Bolzano per l'autorizzazione accordataci. 

Si ringraziano inoltre la Commissione Centrale per la Spelelogia CAI per il supporto, la ditta Gruppo Servizi Topografici per il Laser Scanner, Elifriulia così come gli sponsor e patrocinatori Federazione Speleologica Europea, Tiberino, Scurion, Intermatica, dall’Associazione francese Spélé’ice, dall’Associazione La Venta, BEE1, Sovendi, la Società Speleologica Italiana ed il Corpo Nazionale Soccorso Alpino e Speleologico.




Volando verso le Conturines (foto A. Romeo).


L'ingresso in veste invernale (foto A. Romeo).


Dentro il Tunnel del Vento (foto A. Romeo).


Tommaso si prepara alla prima scansione nel salone di base del Baratro Paolo Verico (foto A. Romeo).


Il Baratro Paolo Verico, con la sua lingua di ghiaccio ad oltre 150 metri dalla base (foto A. Romeo)


In tre, su una piattaforma di alluminio a 110 metri di altezza, come ci vede il Laser Scanner. 


Il campo base la mattina del lunedì (foto A. Romeo)


Risveglio dal sogno! (foto A. Romeo)
Grande Squadra! (foto M. Lampo)

lunedì 23 marzo 2015

Volare

2600 km di voli tra il bacino del Caronì e dell'Alto Orinoco, 25 ore tra le nuvole, avvistando montagne come isole nel mare di foresta. 18 decolli e atterraggi su piste di terra e prati in fiore. 2978 fotografie di vallate, pareti, cascate, griete e enormi ingressi di grotte inesplorate.
Questi sono solo alcuni dei numeri che hanno caratterizzato la prospezione "Amazonas Tepui"conclusasi in questi giorni in Venezuela.  Un viaggio che ci ha chiarito le potenzialità di massicci che fino ad oggi avevamo solo sognato, e che adesso invece sono diventati un paesaggio reale, sempre oltre le aspettative del sogno.

Abbiamo cominciato questo percorso decollando da Puerto Ayacucho, ultima città ai confini dell'Alto Orinoco. Volando sopra montagne di granito e foreste sconfinate siamo giunti alla valle di la Culebra, un luogo paradisiaco circondato dai più grandi massicci quarzitici dell'Amazonas: il Duida a sud (2358 m di altezza, 1089 km2 dialtopiano), Marahuaca a est (2832 m di altezza, 131 km2 di superficie sommitale) e il più piccolo ma elegantissimo Huachamacari a nord (1900 m di altezza, 8 km2 di superficie sommitale). Ad accoglierci calorosamente la comunità di indigeni Ye'kuana con il loro capitano Francisco, e una ciurma di bambini curiosi. Il nostro obbiettivo principale quaggiù è il sorvolo del Marahuaca, seconda montagna più alta dell'Amazzonia dopo il Picco Neblina, e il più alto massiccio in assoluto con morfologia di vero e proprio tepui. Il Marahuaca è una montagna mitica e molto poco conosciuta. Le sue imponenti pareti, alte oltre mille metri, sono state il sogno di molti alpinisti ed esploratori amazzonici, tra cui gli italiani Alfonso Vinci e Walter Bonatti (che effettuò due tentativi di salita nel 1967 e 1973), ma solo le spedizioni della fondazione Terramar  negli anni 1983-1985 hanno per la prima volta raggiunto il plateau sommitale con l'utilizzo di un elicottero, effettuando ricerche sulla fauna e la flora dell'altopiano. Da allora nessuno è mai tornato lassù.
Nel 2010 avevamo tentato un'indagine accurata di questa montagna, purtroppo arenatasi a quel tempo di fronte a svariate problematiche logistiche.
Quest'anno, finalmente, siamo riusciti ad arrivare quaggiù con due cessna, decisi a sorvolarne l'altopiano per valutare le potenzialità speleologiche del massiccio. Tuttavia una montagna di tale imponenza, nel mezzo della foresta amazzonica, è nascosta per oltre trecento giorni all'anno dalle nebbie che risalgono con forti turbini la gigantesca parete est. Riuscire a trovare un passaggio tra le nubi per accedere all'altopiano sommitale non è stato per nulla semplice.
Il primo volo ci ha permesso solo di raggiungere la gigantesca parete del Marahuaca nord, la propaggine settentrionale della montagna. La mattina successiva un nuovo sorvolo ci permette di girare intorno a questo enorme promontorio addentrandoci lungo la parete orientale fino ad affacciarci sulle immense cascate del Marahuaca Sud, ma ancora la parte alta del massiccio è chiusa dalle nebbie. Con il terzo sorvolo abbiamo deciso di salire fino a 3500 metri di quota per cercare un varco tra le nubi e finalmente affacciarci sull'altopiano sommitale. Volando a vista, tra momenti di incertezza e una buona dose di paura, d'improvviso ci si è aperto innanzi un mondo selvaggio di fiumi, pianori, profonde griete e inghiottitoi, a conferma delle idee che ci eravamo fatti guardando le immagini satellitari: il Marahuaca è uno dei massicci amazzonici con maggiori potenzialità speleologiche, con una morfologia ed elevazione tale da poter ospitare profondissimi abissi ancora tutti da esplorare.

Tornati a Puerto Ordaz con il pensiero di come si potrebbe organizzare una spedizione laggiù, ci siamo subito organizzati per un altra prospezione, questa volta al ben noto Sarisariñama Tepui, parte del massiccio Jaua, nel bacino dell'Alto Caura, a metà strada tra i tepui della Gran Sabana e i massicci dell'Amazonas. Si tratta di una montagna molto conosciuta per le due grandi "sime", Mayor e Menor, che la caratterizzano, esplorate da speleologi venezuelani e polacchi negli anni 1974 e 1976.
Tuttavia, nessuno è più tornato ad esplorare laggiù in seguito e da un'attenta analisi delle immagini satellitari ci risultava evidente che il potenziale speleologico di tale massiccio quarzitico fosse stato appena scalfito.
Grazie alla disponibilità di Raul riusciamo quindi ad avere due cessna per questa nuova operazione, con i piloti che per ironia della sorte si chiamano uno Jimmy e l'altro Angel, andando così a comporre insieme il nome del grande pilota americano a cui è dedicata la più alta cascata del mondo sull'Auyan Tepui. Lo prendiamo come un buon auspicio e voliamo da Puerto Ordaz al villaggio Yek'uana di Kanarakuni, alla base della montagna. Un luogo davvero sperduto e affascinante, dove abbiamo avuto l'opportunità di conoscere la popolazione indigena locale e di goderci il fresco della grande capanna comunitaria circolare, la cosiddetta Churuata.
Durante il sorvolo, facendo slalom tra cumuli di nebbie e forti venti, finalmente riusciamo a fotografare una nuova zona di grandissimo interesse. Oltre alle sime conosciute, individuiamo almeno altri 5 grandi ingressi che promettono grossi sviluppi, ma anche grandi difficoltà per essere raggiunti, dato che tale tepui risulta ricoperto da una fitta foresta. Ma la sotto esiste certamente un grandissimo sistema di gallerie sotterranee, che aspetta solo di essere esplorato.

Durante tutto questo volare ci siamo riempiti gli occhi e le schede delle macchine fotografiche di tanti tanti luoghi meravigliosi, un mondo che è fermo ancora ai tempi della genesi, osservano ingressi di mondi sotterranei che ci fanno sognare e ci spingono  a continuare lungo questa rotta. Una conferma che le esplorazioni sui tepui sono appena all'inizio.


Hanno partecipato: Francesco Sauro, Daniela Barbieri, Freddy Vergara, Carla Corongiu, Vittorio Crobu, Tono De Vivo.
I sorvoli sono stati realizzati grazie al supporto del Rolex Award for Enterprise e di tutti i nostri sponsor: Geotec SPA, Raul Helicopteros, ATS, Dolomite, Intermatica, Ferrino, Amphibious, De Walt, Allemano Metrology, Chelab, Scurion, Polish Fundation-Cavesniper, GTLine, New Foods, Bialetti, MountainHouse.


Il Cessna e una ciurma di bambini Ye'kuana al villaggio di La Culebra.
Le grandi cascate sulla parete Nord-Est del Marahuaka Huha.

L'immenso versante nord del Marahuaca Fuif si innalza per oltre 1500 metri sopra la foresta amazzonica.

L'Huachamacari, piccolo ed elegante  tepui amazzonico che si eleva sopra la valle di La Culebra. 

Volando verso Canaracuni.
Il sistema di trafori esplorato dalla SVE nel 1977 nel massiccio del Guaiquinima.

Canaracuni, alle falde del Sarisariñama.

La grande Churuata di Canaracuni.

La Sima Menor del Sarisariñama, oggetto di esplorazione e topografia nel corso della spedizione venezuelano-polacca del 1976.

Il contorno di una sima inesplorata tra la fitta vegetazione del Sarisariñama.

Un profondo pozzo inesplorato sull'altopiano sommitale del Sarisariñama.